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Lavoro nel mondo del caffè dal 2002, quando ho iniziato come barista mentre studiavo all’università. All’inizio era solo un lavoretto per arrotondare: ho fatto una breve esperienza in una caffetteria di una catena e poi sono passata a una piccola caffetteria a Georgetown, a Washington DC, che stava portando il movimento Third Wave in città. Avevamo una macchina La Marzocco, usavamo la miscela di David Schomer (Espresso Vivace) e c’era un’atmosfera incredibile. Mai avrei immaginato che, più di vent’anni dopo, sarei stata ancora qui, immersa in questo mondo. E invece sì, perché il caffè mi ha catturata: è un universo affascinante, pieno di complessità e storie da scoprire. Ogni giorno imparavo qualcosa di nuovo, e mi piaceva condividere quel percorso con persone curiose e appassionate. 

Quella curiosità mi ha portato a esplorare ruoli molto diversi nel tempo. Oggi faccio parte del team di approvvigionamento del caffè verde di Counter Culture Coffee (CCC) e sono anche nel gruppo che guida il marketing dell’azienda. Gestisco i rapporti di acquisto con produttori in Honduras, Colombia, India e Uganda. Il mio lavoro spazia dallo sviluppo dei prodotti allo storytelling sul sito, fino alla redazione del nostro Transparency Report annuale. Assaggio i caffè con i torrefattori, contribuisco alla creazione di blend, insomma, tocco con mano ogni fase, da chi coltiva fino a chi beve. 

Una delle cose più belle di lavorare nel caffè è che racconta il mondo. È un prodotto che connette commercio, cultura e industria come pochi altri. È presente nella vita quotidiana di tantissime persone, ma dietro a ogni tazzina c’è un viaggio complesso, fatto di luoghi, persone, scelte. Più segui il percorso del caffè, più capisci il mondo e chi lo abita. 

Quando ho cominciato, non avevo la minima idea di cosa fosse davvero il caffè. Per me arrivava dal torrefattore e basta. Non pensavamo a chi lo coltivava, dove crescesse, come venisse lavorato. L’unica cosa che contava era la tecnica: la distribuzione della polvere nel portafiltro, quanto pressarla, i secondi di estrazione. Pensavo che fosse questo a rendere il caffè “specialty”. Il ruolo del produttore non era ancora nella nostra narrazione. 

Tutto è cambiato quando ho conosciuto Counter Culture Coffee nel 2005. Ho iniziato a frequentare persone che parlavano di suolo, microclima, varietà—e di come tutto questo influenzasse l’aroma in tazza. Per la prima volta ho capito che ciò che rendeva speciale un caffè non era solo la mano del barista, ma tutto quello che c’era a monte: il lavoro dell’agricoltore, il luogo d’origine, i processi di lavorazione. 

Da allora, CCC è diventata una comunità di riferimento per me, una realtà che crede davvero nell’importanza dei luoghi di produzione. Ogni caffè è figlio del suo territorio. Un lotto di una cooperativa del Nicaragua è profondamente diverso da un micro-lotto kenyota. È questa varietà che crea le sfumature uniche di ogni tazzina. 

Intorno al 2012, il focus del settore si è spostato sulla tracciabilità: raccontare da dove veniva il caffè, chi lo coltivava, la sua storia. Poi, tra il 2010 e il 2015, c’è stata un’ondata fortissima incentrata sulla qualità in tazza. Tutti volevano il caffè più buono possibile. In quegli anni, anche La Marzocco ha sviluppato macchine capaci di impostare profili di pressione e temperature diverse per ogni gruppo, per gestire più caffè con estrazioni personalizzate. Era un’evoluzione tecnica al servizio del gusto. 

Oggi, il panorama si è fatto più sfaccettato. C’è ancora attenzione alla qualità, ma è tornata anche la voglia di raccontare il contesto, la storia. Non esiste una definizione univoca di “specialty coffee”, quindi ogni realtà sceglie su cosa puntare: l’origine, il metodo di lavorazione, la tecnica estrattiva, l’esperienza sensoriale. Questo approccio offre libertà, ma può essere anche rischioso. Quando si crea una narrazione semplificata per accontentare un target preciso, si rischia di vendere come “specialty” anche un caffè economico e prodotto in modo poco etico. E nemmeno un caffè buonissimo in tazza è per forza sinonimo di filiera sostenibile. 

Per questo credo che trasparenza ed educazione siano fondamentali. Noi di CCC, dal 2009, pubblichiamo ogni anno un Transparency Report in cui rendiamo noti i prezzi pagati ai produttori, li confrontiamo con i prezzi di mercato e indichiamo quale sarebbe una soglia sostenibile. Mostriamo anche come vengono distribuiti i nostri investimenti: quanto va al marketing, quanto ai salari. Questo aiuta le persone a capire davvero cosa c’è dietro una tazzina. 

Non credo che la soluzione sia far salire i prezzi all’infinito. Se una tazza dovesse costare 15 dollari, diventerebbe un prodotto per pochi e anche solo una piccola parte dei produttori potrebbe accedere al mercato. La vera chiave sta nella ricerca applicata all’agricoltura: sviluppare varietà di caffè resistenti, più produttive, che richiedano meno fertilizzanti e meno acqua. Serve formazione per i produttori, corsi di agronomia. Chiedere al consumatore finale di pagare sempre di più non è sostenibile a lungo termine. 

Anche le competizioni sono state una parte importante del mio percorso. Nel 2005 ho partecipato alla mia prima gara di baristi, spinta dal mio capo. È stato un momento che mi ha spalancato le porte del settore: ho conosciuto tantissime persone, mi sono appassionata ancora di più. All’inizio gareggiare era un modo per entrare in contatto con il mondo del caffè, poi è diventato un modo per migliorare il mio mestiere e, infine, una sfida personale. Quando ho vinto lo United States Barista Championship nel 2012, ho capito quanto ci tenessi a condividere le mie conoscenze sul caffè. Quelle esperienze mi hanno aiutata a superare la timidezza e a sviluppare una narrazione più consapevole. Lo storytelling, ne sono convinta, può cambiare il nostro settore. 

Se non lavorassi nel caffè, probabilmente farei l’editor di libri di cucina. Amo scrivere, correggere, rendere i contenuti più chiari. Un buon libro di ricette condensa cultura, storia e tecnica in poche pagine. Trovare il modo giusto per raccontare tutto questo in modo semplice sarebbe una sfida che mi entusiasma. E poi, testare ricette per lavoro… non male, no? 

Anche il caffè ha questa dimensione. Una tazza perfetta è dolce, pulita, scalda da dentro. Ma non è solo una questione di sapore. Quando bevo un caffè straordinario, tutto intorno a me cambia. Mi sento più presente, più connessa. È in quel momento che capisco che quella tazza è davvero perfetta: non solo per il gusto che ha, ma per come mi fa sentire. 

In CCC, crediamo da sempre che qualità e sostenibilità dovrebbero essere standard del settore, non elementi distintivi. È questo uno dei tratti che ci distingue. In 17 anni qui ho visto l’azienda cambiare molto. Una volta ogni nuovo dipendente faceva un pranzo con Brett, il nostro co-fondatore, in un piccolo ristorante giamaicano di Durham. Oggi l’onboarding è virtuale—più voci, più flessibilità—ma quell’idea di connessione personale attraverso un pasto condiviso mi manca. 

Forse è proprio la connessione il filo rosso di tutto questo: con le persone, con la terra, con le storie che raccontiamo e ascoltiamo. Il caffè è una bevanda semplice, ma con un’anima profonda. E io, ancora oggi, continuo ad imparare da lui. Ogni singolo giorno. 

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