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Nel 1976 a Seattle avevo un Sandwich shop con alcuni amici. C’era una macchina espresso ma non sapevamo nulla di caffè. Invece la torrefazione che avevamo scelto, The Good Coffee Company, aveva, e credo abbia ancora, una GS originale precedente al 1978. Perché a Seattle viveva questo signor Kittay, toscano, che dava sempre l’indirizzo de La Marzocco a chi gli chiedeva informazioni sul caffè. La mia passione è nata dopo. Andavo in giro con un socio per le caffetterie di Seattle: mi fingevo un tecnico, così potevo imparare qualcosa. Un giorno mi disse: tu sai lavorare su queste macchine, dovremmo importarle, andiamo in Italia a cercare un produttore. Io dissi subito Wow, sì! Erano gli anni 70, eravamo un po’ su quel confine da ex figli dei fiori. Prendemmo appuntamento con una ditta veneta. Arrivammo in Italia, io, Barbara Douma e un altro, che aveva una nipote che viveva a Firenze, Leslie, e voleva andare a trovarla. Nel 1978 Firenze era piena di macchine la Marzocco. La fabbrica era anche vicina, ma non parlavo italiano. Quindi approfittammo di Leslie come interprete. Andammo a incontrare Piero, suo padre Giuseppe, suo zio Bruno. Questo fu il nostro primo incontro con la Marzocco. Prima con Leslie che faceva da tramite, poi direttamente con loro, abbiamo iniziato a importare qualche macchina. Quando abbiamo venduto la prima ci siamo detti Siamo nel business!

Dal 1978 Pian di San Bartolo è stata la mia casa in Italia, fino più o meno al 2008. Venivo in Italia circa una volta l’anno. Ricordo la fiera di Milano: la Marzocco aveva un piccolissimo stand e a volte stavi lì da solo per ore. Ma ogni volta non vedevo l’ora di arrivare, imparare da Piero.

Il mio più grande rimpianto è che al tempo non parlavo molto italiano. Giuseppe e Bruno non parlavano inglese. Ho imparato tantissimo da loro anche solo standoci insieme, vedendo come lavoravano, ma avrei potuto imparare molto di più sulla storia dell’espresso in Italia. Non ero mai stato in una fabbrica prima. Per me era tutto nuovo e interessante. Come una spugna cercavo di assorbire tutto e sono stato fortunato perché si sono presi il tempo.

A proposito di storia chiesi a Piero se avessero delle vecchie macchine ma mi disse Buttate via. Perciò quando vidi una Rondine in una torrefazione la comprai e la portai in fabbrica, perché avessero qualcosa che parlasse della loro storia. E poi trovai una due gruppi a leva, per il nostro showroom a Seattle, erano i primissimi anni 80.

Lavoravo con Piero. Io ero un commerciale e Piero un tecnico. Noi giravamo il mondo, Piero progettava e costruiva le macchine. Il nostro lavoro era un altro. Per noi americani il latte è parte della dieta, della nostra cultura e quindi il cappuccino era veramente popolare, mentre l’espresso non è stato ben accolto. Quindi prima ancora di pensare a vendere la macchina dovevamo promuovere l’espresso. Andavamo negli eventi con un coffee chart. E un passo alla volta è nato un movimento che è cresciuto e nel 1993 abbiamo iniziato a vendere le macchine a Starbucks.

Dovevamo aumentare la produzione, con Piero iniziammo a cercare una soluzione. Era il 1993, lui aveva già una sessantina di anni quindi stava pensando alla prossima generazione, ma non aveva eredi. Misi insieme un gruppo di investitori come nei film e come nei film ci fecero un’offerta che non potemmo rifiutare. Siamo diventati proprietari nel 1994, non ricordo se era giugno o luglio quando venne a firmare l’atto di vendita mi ricordo solo che era veramente caldo.

A Pian di San Bartolo abbiamo imparato cosa significasse essere una fabbrica e essere una squadra.

Noi eravamo tecnicamente i proprietari dell’azienda, ma Piero è sempre rimasto presente: abbiamo aperto un’officina di assemblaggio a Seattle. Un posto diverso da qui. Qua la luce è meravigliosa, l’edificio bellissimo. Siamo in Toscana, ricordo Bruno che ancora faceva le macchine e il babbo di Piero. Seattle era una fabbrica più “fredda”, facevamo solo tre e quattro gruppi per Starbucks. Qua mi ricordo Roberto Pettinelli che cantava l’opera, mentre noi avevamo la musica rock alla factory a Seattle. Ma qua si facevano le cose con le mani, noi là facevamo le cose in maniera più meccanica, perché dovevamo solo produrre più possibile, non c’era una storia. Ma mi sono sempre goduto la dimensione della fabbrica, anche a Seattle. È stata un’esperienza diversa ma ugualmente positiva. Era un gruppo di persone fantastiche, ed era veramente interessante avere nel gruppo persone straniere che avevano la loro cultura e la loro cultura di caffè. A Seattle facevamo molta saldatura e anche ricerca e sviluppo.

Qui in Italia invece dovevamo capire con Piero come poter costruire le macchine. Avevamo idee differenti, ricordo tante negoziazioni su come evolvere, sui progetti. Lavorare insieme non è proprio la cosa più semplice a volte. Iniziammo a pensare a una macchina per casa.

Sarebbe stato un sogno avere a casa la qualità di una La Marzocco professionale. Perché in cucina avevamo una GS a un gruppo. E poi ci voleva anche un buon macinino professionale. Insomma era un impegno abbastanza grosso. Nessuno pensava che una macchina domestica fosse una buona idea. E dovevamo continuare a studiare e imparare cose. Ad esempio sull’acqua e su come usavano le macchine da caffè espresso nei locali con un grosso volume di lavoro. Serviva un lavoro continuo a stretto contatto con il mercato per essere certi di fornire attrezzature che veramente lavoravano per il loro cliente e che li rendevano affidabili in quanto a qualità del caffè.

Negli USA montavano tantissimo latte e le prime macchine GS che importavamo non avevano il riempimento automatico, rischiavano di bruciare la resistenza. I baristi in America a quei tempi imparavano solo come fare le bevande. A volte la macchina restava senza acqua ma il riscaldamento in caldaia continuava a funzionare, la caldaia si riempiva di acqua fredda e si crepava l’acciaio. Alcuni facevano finire il latte nella caldaia, che si rovina e va cambiata. Imparavamo, ma nella maniera più difficile, non c’era nessun’altra formazione se non venire direttamente qua in fabbrica. Non c’erano libri.

Quando Starbucks ha cambiato fornitore abbiamo chiuso la fabbrica a Seattle e riportato tutto a Pian di San Bartolo. Avevamo comprato la fabbrica a condizione di continuare a fare macchine di alta qualità mantenendo il nome, la fabbrica e le persone a Firenze. Un impegno morale prima ancora che legale o filosofico. Ed è successo che i baristi che avevano lavorato in Starbucks su La Marzocco hanno dato vita a una nuova generazione di caffetterie dove installavano le nostre macchine. Siamo stati fortunati. Abbiamo capito l’importanza di non avere un solo grande cliente. E ho capito dopo questa esperienza perché Piero e la sua famiglia non avessero voluto rischiare. Avevano già affrontato questi problemi economici. Fu dura ma siamo sopravvissuti e poi è arrivato il 2008 che è stato un tempo difficilissimo per chiunque in tutto il mondo.

Ho avuto dei buoni soci, non avrei potuto fare tutto questo da solo. Il mio primo socio è stata una donna, lavorava sulle macchine e faceva training e installazioni. Anche Leslie è stata una parte importante di questa storia e Isa Brown e Barbara Douma… Dopo abbiamo portato dentro John Blackwell e Joe Monaghan e Pat Lorrace e altre persone e lavoravamo insieme come un team. E la partnership con Piero e le persone che erano qui, prima come cliente e dopo lavorando direttamente con chi comprava la macchina. Le installavo, facevamo noi assistenza perché non c’erano altri tecnici. Quindi sviluppi una relazione molto stretta con il cliente. Ascolti i suoi problemi le sue lamentele.

Ho veramente tantissimi ricordi qui. Alcuni sono divertenti, altri sono momenti che hanno costruito il mio carattere. Ogni volta che vengo qui ritrovo i ricordi del passato ma me la godo perché stiamo costruendo i ricordi del futuro.

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