Blog
“A coffee with” è il racconto della vecchia fabbrica attraverso le parole di chi l’ha vissuta.
Abbiamo bevuto un caffè con Roberto Bianchi, Chief Operations Officer de La Marzocco. Roberto è stato il primo ingegnere ad essere assunto a La Marzocco, nel 2000.
Sono stato il primo ingegnere ad entrare a La Marzocco. Era il 2000.
La mia storia con La Marzocco inizia con una coincidenza. Io vivevo e lavoravo a Bergamo ed ero fidanzato con Alessia, che adesso è mia moglie, che è nata a Pian di San Bartolo e viveva praticamente a pochi metri da La Marzocco. Tra i due sarei stato io a trasferirmi in Toscana e Alessia mi diceva di mandare il curriculum a questa azienda che faceva macchine da caffè espresso. Quando mi sono deciso a spedirlo mi sono visto arrivare la risposta quasi subito, e volevano incontrarmi. Dopo ho scoperto che proprio in quei giorni Piero Bambi e Ron Cook, che all’epoca era l’amministratore delegato dell’azienda, avevano deciso di mettere un annuncio su un quotidiano, La Nazione, per cercare un ingegnere. All’epoca a Pian di San Bartolo era Piero che si occupava di progettare ed era tempo di uscire con un nuovo prodotto, perché la Linea disegnata da Piero aveva già dieci anni. Io ovviamente l’annuncio non l’avevo neanche visto, ma loro erano rimasti stupefatti dall’efficienza della loro iniziativa.
Tra il colloquio e il mio primo giorno a La Marzocco sono passati circa tre mesi. Quando mi sono un po’ ambientato e sono entrato più in confidenza tutti mi hanno raccontato che Piero durante quei tre mesi era stato agitato e nervoso. Perché era molto convinto che fosse necessario un ingegnere ma continuava a brontolare con tutti, si chiedeva “ma ora come si fa, cosa vorrà fare, chi lo segue, dove lo mettiamo che non c’è neanche la scrivania”. Trovava mille complicazioni e accumulava problemi e ansie, e ne diceva di tutti i colori, concludendo sempre che alla fin fine nemmeno c’era tutto questo bisogno di un ingegnere. In realtà lo faceva solo perché era ansioso, il cambiamento lo metteva in agitazione. Invece dal primo giorno che sono arrivato mi ha preso con lui e non mi mollava più.
Una delle cose più belle che abbiamo fatto insieme, proprio le prime settimane che ero lì, è stato iniziare ad usare il Cad. Per disegnare veniva usato ancora il tecnigrafo, lo stesso che adesso è in Accademia. Ma il mondo era andato avanti. Allora ci siamo messi insieme, è stato comprato il Cad che non c’era e Piero ha iniziato ad usarlo. Sono rimasto sorpreso perché ha dimostrato una grande curiosità, una grande capacità. La volontà e l’apertura mentale di un ragazzino. Non è facile per una persona che per tutta la vita ha usato il tecnigrafo mettersi a disegnare al computer, è un grandissimo cambiamento. Invece Piero si è messo alla scrivania, faceva i suoi esercizi, e piano piano ha iniziato a fare i suoi disegni. Ci abbiamo messo un po’ di tempo ma è così che ha messo giù gli schizzi per la GB5, poi ha disegnato il leone stilizzato, ne ha fatto fare dei prototipi. È stato bello. Una delle prime tante soddisfazioni che ho avuto.
La cosa scioccante era che l’azienda era piccolina e andava costruito un po’ tutto. Quindi dovevo spaziare e occuparmi di molte cose: da portare il Cad a seguire la produzione, la gestione dei ricambi, seguire le codifiche, gli acquisti, i fornitori, il magazzino, gestire le varie fasi di assemblaggio… i primi anni sono stati impegnativi, mi sentivo una trottola che cercava di riparare a tutto. Però è stato bello perché un po’ per volta abbiamo iniziato a costruire le varie funzioni, mettere insieme i vari dipartimenti e sembra veramente passato poco tempo, abbiamo fatto veramente tantissimo, oggi siamo un’azienda fantastica.
Oggi dobbiamo lavorare in maniera diversa, più precisa, più professionale, giocando in anticipo, facendo le analisi del rischio. Perché le cose sono cambiate.
Era una realtà molto piccola ma questo non significa che una persona sola potesse fare tutto. E Piero ha sempre sofferto la responsabilità di avere tutto sulle sue spalle, me l’ha detto più volte. Avrebbe preferito avere qualcuno con cui condividere i problemi per poter avere un supporto morale. E io lo comprendevo perché non siamo tutti uguali, e dipende da come sei fatto. Qualcuno prende decisioni da solo e non ha problemi, poi c’è chi ha bisogno di confrontarsi: io per esempio sono come era lui, e sono contentissimo di avere persone di fiducia intorno. Mi aiuta ascoltare le loro opinioni, i loro punti di vista. Oggi siamo una squadra, mentre Piero doveva gestire tutta la parte pratica dell’officina, gli operai, la produzione, i fornitori… riusciva a fare tutto ma ovviamente non poteva gestire anche il lato vendita, c’era un mercato ridotto, curava 4 o 5 clienti storici e solidi, ma essendo da solo non poteva fare tutto, anche mettendoci tutta la buona volontà sei sommerso. Dopo il primo ingegnere iniziò la ricerca di un buon commerciale, infatti.
Quando noi nuovi manager ci siamo incontrati avevamo più o meno tutti la stessa età. Non ci siamo mai pestati i piedi, perché avevamo competenze diverse e ci accomunava più o meno la stessa formazione. Arrivavamo dalle classiche situazioni delle aziende italiane ed eravamo stati tutti quanti frustrati dalle stesse cose. Le esperienze passate ci hanno fatto apprezzare tutto quello che di positivo avevamo trovato a Pian di San Bartolo ed abbiamo agito per mantenerlo, aggiungendo la formazione, la leadership, la delega di responsabilità e tutta l’attenzione alle nuove generazioni. Il nostro lavoro più grosso negli anni probabilmente è stato questo. La soddisfazione più grande oggi è vedere cosa siamo riusciti a costruire in termini di cultura e organizzazione aziendale (e non è finita). Ovviamente c’è anche l’orgoglio di aver lanciato dei nuovi prodotti, ma tutto si basa sulla struttura che abbiamo creato. Abbiamo costruito una rete di persone che hanno un loro know how, e domani lavoreranno insieme e guideranno l’azienda. Questo significa dare fiducia e delegare. Decidere in autonomia equivale a prendersi la responsabilità di sbagliare. Non è facile, perché ti esponi alle critiche, ti esponi al fallimento.
Chi fa il prodotto è un po’ facilitato, perché deve decidere tantissime cose e ogni volta che il prodotto viene visto da qualcuno (che non è detto che ci capisca) c’è sempre qualcosa che non va bene, o di cui deve rendere conto, e benché questo possa essere fastidioso ti insegna e ti abitua al fatto che non puoi mettere tutti d’accordo.
La capacità di un manager sta nella capacità di decidere. Nel prendersi la responsabilità e correre il rischio. L’abilità sta nell’accorgersi velocemente se si è sbagliato, nel saper correggere il tiro molto in fretta. Una cosa che ho imparato dagli americani è questa: in Italia, o in Europa in generale, l’errore è visto come un fallimento. E tu se sbagli sei un fallito. Lì invece l’errore è soltanto una cosa che può succedere, non c’è giudizio. Quindi appena individuano l’errore si correggono velocemente. Fa semplicemente parte del percorso di un imprenditore che rischia.
Nell’essere piccoli c’erano anche tante cose molte positive. La comunicazione, ad esempio. All’epoca bastava affacciarsi e avevi davanti tutta l’officina, bastava anche solo dire una cosa ad alta voce perché la sentissero tutti! O per il controllo dei materiali: oggi abbiamo gestionali, codifiche, i materiali sono stoccati in vari posti, devi fare in modo che tutti spostino i materiali con la stessa procedura o non sai più dove finiscono: a Pian di San Bartolo invece uscivi e sapevi che c’erano i telai: visual management! Sapevi di avere tre pezzi e li vedevi. Oggi se qualcuno, anche in buona fede, sposta qualcosa senza seguire una procedura finisce che queste cose sono perse.
E poi in cinque minuti facevi il giro della fabbrica, passavi dalla saldatura, parlavi con le varie persone e avevi tutto sott’occhio. Oggi è impossibile. E abbiamo provato a rimanere in una dimensione umana ma adesso siamo 400 solo qui.