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A coffee with” è il racconto della vecchia fabbrica attraverso le parole di chi l’ha vissuta.

Questa volta abbiamo bevuto un caffè con Elena Ciuffi, Purchasing Manager de La Marzocco.

 

Ormai sono ben 17 anni che lavoro qua ma ricordo benissimo la prima impressione che mi fece La Marzocco. Arrivavo da una multinazionale e la realtà di Pian di San Bartolo mi sembrò quasi irreale. L’ufficio, che condividevo con altre due ragazze, era stato ricavato da un magazzino ed era nell’area dove ora viene fatta l’assistenza sulle macchine dalla filiale Italia. Mi colpì che le persone vivevano l’azienda come se fosse l’unica azienda del mondo. La maggior parte dei dipendenti erano locali, vivevano veramente a due passi dalla fabbrica. Ma si sentiva questa sensazione di soddisfazione. Era il loro mondo. Era una questione di prestigio. Eppure era un’azienda ancora molto piccola. Quando arrivammo a chiudere l’anno io rimasi scioccata dai conteggi: non era chiaro se avevano fatturato 1675 macchine o 1679. Giornate intere a capire cosa fossero quelle quattro macchine, forse una era stata un reso, una forse era stata regalata. Oggi che facciamo quarantamila macchine l’anno questi numeri fanno sorridere. Era veramente un’ambiente particolare. I ragazzi in officina erano la maggioranza rispetto a noi impiegati e venivano molto considerati e ascoltati, perché loro erano la produzione e rappresentavano la conoscenza storica, avevano esperienza sul campo rispetto a noi “nuovi”. C’era un rapporto diverso da oggi, molto più unito, dovuto ai numeri ridotti. Era una fabbrica fuori dalla città, ma non in zona industriale, era in mezzo a un paese, in un posto spettacolare. Mi sembrava di vivere su un’isola.    

Quando sono entrata eravamo così pochi che capitava di dover fare un po’ di tutto, quindi ti dava una gran soddisfazione contribuire. Guardando indietro magari chissà quante cose abbiamo sbagliato. Forse alcune cose si potevano fare meglio. Ma in quel momento, secondo me, quello era il meglio che si poteva fare. Ed era una cosa collettiva, era la voglia di darsi mano tutti insieme, senza competizione. Si è veramente lavorato tanto ed è stato l’anno della svolta. La crisi del 2009 fu l’occasione per riorganizzare tutte le cose. E dover fare un po’ di tutto ti faceva sentire partecipe, quando vedi che il problema è risolto anche grazie a te, senti di essere un ingranaggio dell’azienda. Ma non in senso negativo, che sei solo un numero invisibile e non vali niente. Nel senso che sei quella rotella senza il quale tutto si ferma, sei l’ingranaggio che fa andare la macchina. Quando sono arrivata qui avevo già un’esperienza ventennale e sento di aver portato qualcosa, di esser stata utile, in un momento che non è stato facile per niente. Da lì in poi siamo sempre andati in crescita, abbiamo avuto una soddisfazione dietro l’altra.  

Ho dei ricordi vividi dei primi tempi, che mi sono rimasti, legati a questo senso di stupore di fronte a un mondo diverso da quello che avevo vissuto. Quando arrivai ricordo Roberto Bianchi che mi accolse spiegandomi un po’ tutto e mi disse “Poi ti faccio fare il giro del museo, Piero ti spiegherà tutto” Io questa scena me la ricordo ancora. Perché alla parola “museo” non dico che mi aspettavo gli Uffizi, ma ebbi comunque un senso di aspettativa. Mi portò per le scale e mi trovai davanti a tre macchine che mi sembrarono solo macchine vecchie. Perché erano ancora tutte da restaurare. Quelle che abbiamo oggi in fabbrica e in Accademia sono state tutte rilavorate, negli anni mi sono occupata di farle rilucidare, risistemare, far ricromare dei pezzi, rimettere le placchettine in plexiglas. Ma a quei tempi non c’erano neanche i mezzi, ancora, erano messe lì come erano. Ma ci credevano così tanto che la loro grande passione trasformava la realtà, per loro era “il museo”. Io che arrivavo da fuori lì per lì rimasi un po’ così. Io venivo da Firenze, che per loro era un mondo lontano. Tutta la realtà di Piero, di Pina e la maggior parte degli operai, si fermava a San Bartolo, eran tutti di lì. Piero preferiva assumere persone di San Bartolo. Era un circolo chiuso che in un certo senso poteva controllare, era rassicurante perché in paese si sapeva se un ragazzo era un bravo ragazzo o no. A Firenze La Marzocco delle macchine da caffè non la conosceva praticamente nessuno, se parlavi de La Marzocco era “Quella dei libri”, una libreria del centro.  

La cosa più buffa fu la prima volta che vidi l’apertura della World Barista Championship. Fu un momento di fermento generale! Venimmo chiamati tutti su per collegarci a un video in una stanza, tutti erano in fibrillazione. Io cercavo di capire cosa fosse questa cosa. La gara del Barista? Chiesi cosa vincessero e mi dissero una cifra che mi sembrò anche modesta, non era qualcosa che avrebbe potuto cambiare la vita. Invece erano tutti lì con il fiato sospeso. Io guardai questi baristi che facevano dei cappuccini e rimasi molto perplessa, non riuscivo a capire. Perché quando la sera tornavo a Firenze e raccontavo queste cose ai miei amici loro non si capacitavano. Col tempo ho imparato che gli americani danno molta più professionalità al lavoro, mentre nella nostra cultura il barista era proprio un lavoro di livello minimo, per chi non ha ancora trovato altro o non sa fare altro può sempre andare a lavorare in un bar. Per il primo anno non capivo se dipendeva dalla fabbrica e io vivevo in una favola lì dentro oppure era il mondo fuori ad essere strano. 

A volte al bar c’era Piero con qualche fornitore. Ricordo due fornitori storici, che all’epoca a me sembravano già più che vecchi: facevano delle lavorazioni meccaniche su un coperchio, ma si sentivano importantissimi, perché lavoravano da quarant’anni con La Marzocco. Stavano lì a parlare per delle ore. Io con Piero non mi incontravo spesso all’epoca. Mentre una volta trasferiti a Scarperia aveva l’ufficio accanto a me e allora ogni mattina prendevamo il caffè insieme, mi faceva assaggiare tutte le miscele che si inventava. A volte borbottava e veniva a sfogarsi nel mio ufficio, perché anche se avevo 30 anni meno mi sentiva sicuramente più vicina alla sua mentalità rispetto a tutti i giovani che stavano iniziando ad entrare. Poi venivamo entrambi da Pian di San Bartolo, quindi mi considerava storica anche per questo. Era uno sfogo e anche una maniera di avere una visione di dove stava andando l’azienda. Poi avevo preso ufficialmente il posto della Pina quindi per quanto riguardava i fornitori Piero aveva tanta voce in capitolo e veniva sempre a dire la sua. Solo che era abituato a Pina, che si occupava degli acquisti ma essendo l’unica impiegata dell’azienda faceva anche tante altre cose perciò Piero a volte mi chiedeva anche cose che non erano più di mia competenza e lo dovevo indirizzare da altre parti, perché crescendo ognuno si è specializzato. C’era una gestione del tempo diversa, era percepita in una maniera che non sapevo neanche bene come comportarmi. Giornate intere a disquisire. Era una dimensione più che in famiglia, era oltre. E c’erano degli equilibri che prescindevano l’aspetto professionale. Ron, che era l’amministratore delegato all’epoca, quando entrai si raccomandò. Mi disse: tu sei molto energica, mantieni un low profile. Infatti il primo anno ero quasi interdetta, perché in questo ambiente così “rilassato” mi sembrava di non essere sfruttata al massimo. Ma dopo ci siamo ripresi, per superare la crisi mi sono talmente fatta prendere che ti assicuro abbiamo lavorato eccome e mi sento di avere dato tanto. Ma sono contentissima di tutto quello che ho fatto, e lo rifarei.

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