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Oggi sono Field Service Specialist in Accademia del Caffè Espresso. Ho iniziato a lavorare come meccanico a quindici anni e poi a ventidue ho iniziato a fare assistenza tecnica e ho fatto questo praticamente tutta la vita. Il mio vecchio principale, quello che mi fece vedere la prima macchina da caffè, aveva una testa incredibile, proprio come Piero Bambi. Era un personaggio fantastico, un inventore, un curioso, aveva girato il mondo tre volte. Il primo giorno mi fece vedere la macchina da caffè e mi spiegò un poco il funzionamento: questa è la piccola leva che serve a questo, questo funziona così… il giorno dopo mi dette la cassetta degli attrezzi con la stoppa (il teflon ancora non esisteva), il fil di ferro, un pappagallo, tre guarnizioni e mi disse VAI. Poi, dopo, ho saputo che mi aveva mandato dal cliente più tranquillo, però… iniziò così: il primo giorno con lui e il secondo giorno subito fuori, da solo. Con una due cavalli a furgoncino che non partiva mai. Non facevamo solo macchine da caffè: frigoriferi, cucine, cappe d’aspirazione, friggitrici, arredamenti… Installazioni, assistenza… qualunque cosa si muova io la riparo. Per diciassette anni ho lavorato nel concessionario Faema di Firenze, poi ho lavorato per conto mio, poi sono approdato a La Marzocco, prima in After Sales e adesso qua in Accademia. E tra poco vado in pensione. Per me è stato il lavoro perfetto, era quello che rispondeva esattamente a quello che mi diceva la mia vocina dentro. Io sono nato per capire, cercare il perché e trovare una soluzione. Perché fare assistenza tecnica è un incrocio tra il proprio senso del dovere, il piacere personale nel risolvere problematiche e tutto il resto è una conseguenza di queste due cose. È una soddisfazione, perché come diceva Piero si deve avere rispetto e amore per quello che si sta facendo.
Logicamente ci sono stati alti e bassi, questo è un lavoro che te lo devi sentire da dentro, sennò non lo fai. Perché non hai orari, non ci sono festività, ti trovi a fare delle rinunce. Non lo augurerei a nessuno. Però quando hai sistemato tutto son soddisfazioni. Qualcuno crede che sia divertente, che si tratti di andare in giro per bar. Certo, peccato che inizi a lavorare quando il bar chiude. Per cinque o sei anni ho avuto ditta per conto mio, ero da solo e non ce la facevo perciò iniziai a cercare aiuto. Ma come fai a spiegare che non ci sono orari, che non sai mai quando ti chiamano?
Per fare questo lavoro secondo me ci devi nascere. È un modo di fare le cose che si riflette in ogni aspetto della vita: ci metti amore, passione, sbagli mille volte, fai bene mille volte. È qualcosa che fa parte del lato umano. Mi è capitato di andare in vacanza insieme a persone che ho conosciuto in quanto clienti ma con i quali si è instaurato nel tempo un rapporto che si basa sulla fiducia e che riesce ad andare oltre il lavoro. Non si tratta più solo dell’apporto tecnico o l’aiuto che puoi dargli.
Dovendo fare assistenza sulle macchine La Marzocco venivo qua con il mio principale a prendere i ricambi. Il mio principale aveva lavorato con Piero perciò si conoscevano bene. Ci sono stati periodi in cui venivamo spesso, tipo quando cambiarono il modo di fissare il gruppo alla caldaia, perché nacquero problemi per cui dovevamo fare molta assistenza ai clienti. Venivamo qua e riempivamo il furgone di caldaie. Ci rincorrevano sempre quando venivamo via perché il mio principale se ne portava sempre via qualcuna di nascosto. L’altro socio invece era famoso perché non sapeva usare il tester e qualsiasi problema elettrico sulle macchine andava con il cercafase e non trovava mai niente. Allora iniziava a cambiare i pezzi. Alla fine, soddisfatto, ci faceva vedere che la macchina funzionava. Ovvio, praticamente l’aveva rifatta nuova. Piero su queste cose diventava una belva. Mentre invece mi ricordo una volta in cui ero in auto con lui e Giovanna dopo una cena e lei che era seduta accanto a me ebbe una reazione allergica e svenne. Piero per sé stesso sopportava ogni cosa ma su Giovanna perdeva il lume, rimase pietrificato, un pezzo di gesso, andò nel panico.
E mi ricordo una volta che lo feci talmente arrabbiare che mi buttò fuori. Parlavamo del problema delle caldaie che perdevano. E all’inizio eravamo molto tranquilli, ma io insistevo e continuavo a dirgli “Piero deve fare così, forse deve fare cosà” e a un certo punto lo feci scoppiare, mi prese per il colletto e mi disse “Ma sai cosa devi fare? La porta da dove sei entrato prendila per uscire!” e mi buttò fuori. Il giorno dopo eravamo insieme un’altra volta ovviamente, come nulla fosse.
Oppure ricordo una volta che andammo in un ristorante da un amico di Piero e questo signore ci dette un prosciutto da consegnargli, come regalo di Natale. Io guardai il mio principale che prendeva il prosciutto dicendo Sìsì, ci penso io e avevo già capito come sarebbe finita. Mesi dopo ci trovammo di nuovo lì con Piero e il ristoratore chiese a Piero come era il prosciutto, lui sgranò gli occhi e il mio principale disse “Parecchio buono!”. Se non l’avessi tenuto Piero gli avrebbe messo le mani addosso. Piero era la persona più amabile del mondo, ma in tre secondi si infiammava. Poi tornava pacatissimo, ma Piero era così. Io non l’ho vissuto quotidianamente, venivo qua se c’era bisogno. Però ogni volta che c’era qualche problematica sulle macchine eravamo sempre al telefono.
Erano altri tempi. Oggi questo lavoro non lo vuol fare più nessuno. Però se vai un po’ in giro nel mondo ti accorgi di come è diversa la percezione: essere il tecnico è qualcosa di prestigioso. A distanza di vent’anni, gente che non vedo da tempo mi ritrova e mi abbracciano mi baciano, mi presentano agli altri “questo è il tecnico!!”. Gli inglesi mi chiamano “engineer”… Per loro essere capace di riparare qualcosa, di risolvere i problemi è un vanto. Ma questo lavoro per i ragazzi oggi non è attraente. Significa iniziare la mattina presto, non sapere mai quando finisci… Poi ti capita la chiamata alle sei di pomeriggio che devi lavorare fino a sera, il sabato che sei reperibile e hai il cliente fisso, la domenica… una volta ho passato la mattina del pranzo di natale sul Ponte Vecchio con il tizio del bar e ci siamo mangiati due panini avanzati del giorno prima, e quello è stato il nostro pranzo di natale. Perché la sua macchina era piantata e lui il 26 doveva riaprire. Ed io ero lì alle sei del mattino e ci ho fatto le cinque di pomeriggio.
Per me era normale perché, quando faccio una cosa, mi piace farla in una determinata maniera. Che mi faccia stare bene con me stesso. Questo è un problema perché alla fine questo lavoro se sei fatto così ti piace e ti crea dipendenza. Mi è capitato tante volte, di desiderare di avere più chiamate e andare, fare, andare, fare. Anche questo si spiega male però l’ho notato in più persone.
Quando sono entrato a La Marzocco per due anni questo ritmo, questo correre, mi è mancato. Mi ci sono voluti due anni per abituarmi ad un ambiente diverso. Mi mancava la mia routine che non era routine, il rapporto quotidiano con le persone. La clientela, stare sempre fuori… mi sentivo in gabbia e ho continuato per certi versi a sentirmi in gabbia. Eppure, fare assistenza non è sempre piacevole. Per rapportarti con il cliente a volte devi essere più psicologo che tecnico. Perché hai sempre a che fare con persone alterate. L’80% delle volte sono delle belve che ti metterebbero le mani al collo. Devi riuscire a placarli, levargli l’ansia che hanno addosso. Devi lavorare mentre ti ringhiano sul collo perché la macchina è ferma e stanno perdendo 4 euro. E tu sei lì con la macchina che brucia come un animale e devi stare attento a ogni dettaglio.
Con l’avanzare della tecnologia le cose cambiano ovviamente. Cambiano i metodi. Con la manutenzione predittiva si spera di scongiurare le emergenze, piano piano magari inizieranno anche a rompersi sempre meno e per quel poco magari riusciranno a ripararsi da sé… comunque io resto dell’idea che il futuro è negli attrezzi.